Franco Pedrina

Flavio Arensi
Pedrina, la commozione di essere uomo
A Conegliano Veneto (TV) una splendida esposizione di un artista che sa toccare le corde dell’anima
Nei suoi quadri, il dramma dell’esistere in tutte le sue molteplici sfaccettature

Prima di sabato scorso non mi era mai capitato, visitando una mostra, di trovarmi gli occhi lucidi e pronti a scoppiare.
Non dovrei premettere altro, poiché di scarso interesse esegetico e critico. Tuttavia, questa società manca di emozionarsi dinnanzi al mistero dell'uomo, al segreto recondito della vita; bastante il successo e il denaro, dimenticando invece che ogni attimo di esistenza dovrebbe nutrirsi e partorire stupore. Se non ci venisse insegnato fin da bambini a trattenerci, non avrei avuto vergogna di farmi rigare il volto dalle lacrime mentre leggevo la bella autobiografia di Franco Pedrina, di fronte ai suoi quadri. Ho riso anche, profondamente. Poi ho guardato le opere appese rivivendo le paure, la solitudine, la morte, l'amore, l'erotismo che ha investito in questi anni il loro autore. Sbaglio a iniziare una perlustrazione interpretativa ammettendo fin da subito la mia trascinata adesione alla poetica di Pedrina, alla ricerca umbratile, prima che solare. D'altronde, il suo tingere le tele sul dorso per volgere il davanti in una sottile e mutevole linea di confine fra sfumature, rende la sua attività pittorica difficile e quasi limitata. Conferisco un'accezione positiva alla limitazione, qualora essa - come nel caso di Pedrina - si riferisca alla disamina attenta dei valori interiori ch'egli afferra, anziché concernere a motivi ampi e generalizzati. In questo senso si tratta di un tipo psicologico introverso, chiuso e solitario, quando la solitudine è tanto una condanna quanto una necessità di coscienza. Egli, infatti, partecipa alla natura, alla vita dell'uomo, attraverso la sua dedizione al magistero artistico; non per questo smette di intingere il pennello nel colore stinto della sofferenza, comunicatagli dalla memoria, magari non direttamente sua propria, bensì quella dispersa nelle origini dell'Universo, quando il Dio creatore adempì ai doveri di ideazione. Ma il mondo che Pedrina rappresenta, mai veramente astratto né concreto, risulta qualcosa di alterato rispetto all'originale.
L'ingiustizia è già penetrata e il grido della guerra, che soltanto l'ha sfiorato perché bambino, pare una presenza pallida al suo fianco, come potevano quegli esseri rinsecchiti chiusi all'interno dei Lager. Non si recita la morte, mai, però la si evoca e non vorrei si fraintendesse la sua necessità di penetrare la natura, quasi sessualmente, con l'intenzione di nascondersi, o peggio, di fuggire i drammi del secolo passato. Pedrina osserva, come Verlaine dall'altura, la stagione umana e quasi senza neppure citarla la interpreta. Comunque non dimentica, non può alterare quella memoria della storia più grande dei suoi lavori: precedente e posteriore ai suoi lavori. La cascata, l'anguria, il camino soffocato, sono l'ebreo umiliato di Levi, l'amico Pierluigi Lavagnino esanime sul letto di morte, la gioia defatigante della pittura. Il suo agire sembra ostico e isolato, poiché - ragionando - non pur dimostrarsi diverso. Vi è pensiero al suo interno, vi sono secoli di vana inefficace sopravvivenza. «Non per tutti è il mistero», ammoniva Godfried Benn, «non per tutti!». Come non può condividersi la visione panica della natura senza sopportarne l'immensità assoluta e irrazionalizzabile: serve compassione, compartecipazione. Quindi molto silenzio. Dunque è facile opporre alla pittura remota e scarsamente immediata un rifiuto sdegnato, quanto è davvero difficile porsi nella condizione di dover riflettere e assorbire pure quelle velature misteriose sul retro della tela, quell'aspetto della vicenda umana stimabile secondario, benché invece determini e condizioni ciò che è in rilievo, sotto l'occhio. Pedrina legge il mondo dalla sua anima, direi dalle sue vene, dallo stomaco, dal fegato, addirittura dall'intestino, ovvero adopera le sensazioni per decifrare un ambito travalicante la nostra sola ragione.
E se guardando i fatti della sua vita non avesse opposto questa lettura, allora avrebbe trasformato l'esperienza in immagini vuote, non importa se astratte o figurate. Vuote. Ciò che l'ha salvato dall'impazzire è stata l'ironia intelligente e la presunzione di essere un granello che passa per l'infinito firmamento; la consapevolezza che le tele gli sono servite a campare, materialmente e spiritualmente. Da dove derivino, in che modo, con quali sostrati culturali, quali memorie, interessa meno, fintanto che il sangue scorre per il corpo e fa tremare per il turbamento. I critici, il successo, persino gli amici, passano e avvizziscono come il fogliame delle sue vegetazioni o i resti di tronchi. Arrivano, lasciano un pensiero, un sorriso, qualche parola, una sembianza, poi se ne vanno, oppure restano come sagome indecifrate nei suoi quadri, che non hanno bisogno di ritratti per raccontare l'uomo. Esso, in fin dei conti, è simile a quei personaggi delle Danze macabre medioevali: pura impermanenza. E ciascuno muore, e la morte è l'unica uguaglianza. Forse, questa verità semplice è ancora più diretta quando, nella sua autobiografia, Pedrina racconta la figura paterna sorpresa a intenerirsi per il discorso di papa Giovanni; spenta la televisione afferma: «valà, valà che te mori anca ti senza esserte visto el buso del c...».
In questa partecipazione malcelata e irridente vi è tutta l'essenza del nostro vivere. Perché occultarla? Perché non lasciarsi intorpidire (o risvegliare!) dalla commozione?
Antologica del pittore Franco Pedrina. Conegliano Veneto (Tv), Palazzo Sarcinelli, fino al 27 maggio. Internet: www.lineadombra.it.

(in «La Padania», 13 e 14 maggio 2001)

 


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